Teatro

Gabriele Calindri, molte vite in teatro

Gabriele Calindri, molte vite in teatro

Suo padre era figlio d’arte. Il grande Ernesto Calindri aveva per genitori una coppia di prim’attori di giro. L’epoca era quella dei primi del ‘900. Quando il giovane Ernesto venne a Milano per vivere nella città dove lo sport si faceva sul serio, aveva 16 anni. Qui la gente andava in giro con le carrozze a cavalli e i Navigli erano placidi canali che circondavano la città. Secondo Ernesto Calindri, che ho intervistato tanto volte e sempre l’ho giudicato un uomo dalla straordinaria compostezza, gentilezza e simpatia, Milano era una città meravigliosa e il teatro tutta la sua vita. Parlando con Gabriele, a sua volta figlio d’arte e ultimo di quattro fratelli, mi sento costretta a chiedergli di lui. Lo incontro al Teatro dell’Elfo dove, fino al 26 maggio, è in scena Happy Family, dove Gabriele recita diretto dal giovane Alessandro Genovesi in una commedia adorabile, da non farsi sfuggire a nessun costo. Cosa ti ha lasciato, tuo padre? Vorresti essere famoso come lui? Una cosa che sembra scontata è che un padre come quello che ho avuto io, che mi portava in teatro fin da quando avevo 2 anni, che mi faceva vivere le atmosfere sue… Io le ho vissute, le ho assorbite, come pure i miei fratelli, anche se io sono l’unico a fare davvero questo mestiere, oggi. Ma bisogna riconoscere che tutti ci hanno provato, anche solo come tecnico, fonico, macchinista. Poi c’è chi ha resistito e chi no. Ma eravamo rimasti tutti intrappolati in questa spirale perversa. Nostro padre ripeteva ogni giorno che “Questo è il lavoro più bello del mondo” e ci abbiamo provato. Però ammetto che a me non piace la popolarità, non voglio che una parte della mia libertà sia in dubbio. Ecco perché non mi sono sforzato per diventare not. Anzi, ho preferito defilarmi. Come mai reciti in Happy Family? Il regista è anche l’autore del testo, Alessandro Genovesi. Come attore ha lavorato all’Elfo, dove io spesso collaboro, in particolare lui ha sostituito Ferdinando Bruni ne ‘La Bottega del Caffè’. Lo scorso anno aveva finito di scrivere questa commedia, l’ha presentata a Riccione e ha vinto un premio speciale come migliore Opera Prima. Questo lo ha incoraggiato, gli ha dato la spinta ad andare avanti e poi ci ha invitati a seguirlo. Lui è una persona deliziosa che incoraggia ad andare avanti. Mi fece leggere il testo, l’unica cosa che mi tratteneva, ma poi ho accettato perché l’ho trovata delicata e forte. Come la descriveresti? E’ una commedia dove si vuole arrivare alla fine, toccare corde delicate ma a tinte forti. Non vengono risparmiate parole o situazioni un po’ pesanti, ma sempre con una luce di leggerezza. Lui afferma che questa è una commedia camuffata. Ti fa ridere, speriamo!, almeno sorridere. Mostra i paradossi che l’insicurezza umana ci mette davanti, eppure la paura di vivere è il vero punto a cui dedica la piéce. Come trovi il tuo personaggio? Vivo benissimo il mio personaggio, l’unico un po’ meno comico ma non per questo meno significativo. Devo interpretare una persona un po’ più anziana di quanto io sia e per risultare credibile faccio fatica. Ma devo dire con una certa gioia che Alessandro ha messo insieme una compagnia di prim’ordine, sia dal punto di vista lavorativo che umano. Ha creato un clima di lavoro e, anche al massimo della fatica, si resiste. Lui ci tiene in bolla, sa cosa dobbiamo fare. Lo spettacolo sembra semplice ma è molto complesso., anche dal punto di vista scenico. Tutto lo spazio dell’Elfo si trasforma in casa, con mobili talmente belli e particolari che il pubblico può comprarseli e portarli a casa. Il mobilificio ce li sostituisce con altri, poi. La platea appare come una tribuna, mentre ovunque altrove noi lavoriamo in questa enorme casa. Venite a vedere e capirete cosa significa. Come ti senti in mezzo ad attori così diversi in un’opera prima? Ogni volta sembra di ricominciare da capo. Speriamo che vada bene, apprezzo molto che Alessandro ci dice che dobbiamo fare bene per tutto il tempo. Io come collega vado a vedere spettacoli che mi interessano ma cerco di evitare le prime, per evitare quella sottile isteria. Viverla da attori dà molto stimolo, è molto bello. Una cosa che ricordo di quando avevo 10-11 anni: papà mi fece recitare per la prima volta e le compagnie erano famiglie allargate, tutti si confidavano gli uni con gli altri. Questo ti faceva sentire a casa anche se a casa non eri, magari eri in tournée, o altrove. Hai una casa tutta tua? Beh, sono in affitto e spero di non fare la fine di papà, che non l’ha mai avuta. Forse ho provato a comprare una casa fuori dalla grande città ma purtroppo non me lo posso ancora permettere. Per tre anni ho lavorato con mia moglie a Palermo, a seguito di offerte per lei e per me: ci siamo innamorati reciprocamente di questi luoghi. Così tra prove e spettacoli abbiamo passato tanto tempo fuori. Tornare non mi è dispiaciuto, sto bene anche a casa, a lavorare con l’Elfo per la ‘Bottega del Caffè’. I primi anni che eravamo sposati, lei recitava con Alfonso Santagata e io con lo Stabile di Sardegna. Stavamo spesso distanti, per mesi, però i momenti in cui ci si dava appuntamento a metà strada erano molto romantici. Diciamo che col passare degli anni lo slancio passa, questa vita diventa un po’ più faticosa. Ma quando parliamo di lavoro, nei momenti di allegria ed euforia, la prima persona che cerchiamo per aiutarci è lei e me, l’uno per l’altra. Fai anche altro? Mi diverto ancora a fare doppiaggio, mi piace moltissimo e ho fatto spesso anche il regista, oltre all’attore. La regia è una naturale evoluzione delle cose ma ci sono differenze. E’ importante anche il percorso opposto, cioè registi che non recitano più. Credo che tutti i registi dovrebbero tornare sul palco. Le differenze sono che in qualche modo bisogna essere propositivi e generosi con gli attori, ma anche spietati. Tentare di riconoscere le cose che non funzionano e lavorare sulle persone in maniera decisa. A parte i grandi guru della regia, sento sempre più colleghi che lamentano un’assenza di generosità e direzione vera, da parte dei registi. Ho un po’ l’impressione che ci sia meno il piacere di trasmettere le tecniche del lavoro. Cosa intendi per regia? La regia non può essere una fredda strategia di movimenti, diventa sterile. Gli attori amano essere diretti e ovviamente bisogna saper dirigere. Io cerco, quando si lavora insieme, di trasmettere cosa ho percepito dalla vita, dalla mia esperienza. Cerco di convincere gli attori a raggiungere un punto prefissato, volendogli bene. Anche questo è importante. Io ho avuto l’onore di fare laboratori o spettacoli con persone veramente importanti, come Peter Brook, Grotowski, Flasch. Queste persone magari sono le più complicate, con loro stessi, ma con i loro collaboratori sono di un’umiltà impressionante: dedicano molto tempo a parlare con tutti. E questo è bellissimo.